venerdì 2 marzo 2012

Il finito è il prezzo dell'infinito

L’universo che noi consideriamo reale è solo apparenza. Tutto ciò che viene percepito dai nostri sensi e dalla nostra mente è maya, illusione. La Realtà immutevole è ciò che c’è dietro questa apparenza. E’ il Brahman. L’Essere, che è sempre stato, è innato, increato e esso è l’essenza di ogni essere vivente. 

Il Brahman che è dentro di noi è l’Atman e scopo della vita umana è proprio la realizzazione dell’Atman, l’esperienza cioè che l’Atman e il Brahman sono la stessa realtà, dopo di che non c’è più niente che vale la pena conoscere. 
Questa, in estrema sintesi, è l’essenza dell’Advaita Vedanta, il Vedanta a-duale, il Vedanta cioè che considera esistente una sola Realtà, il Sé e che niente esista che sia altro-dal-Sé. 
Si tratta di uno dei sei darshana o dottrine filosofiche dell’induismo che trova fondamento nelle Upanishad, nei Brahmasutra e nel pensiero di alcuni filosofi, tra cui eccelle Shancaracarya, e che costituisce la base teologica dell’induismo contemporaneo. 
Per raggiungere la consapevolezza che Atman e Brahman coincidono, bisogna abbandonare l’”io” e il “mio” che sono i più grandi ostacoli alla nostra realizzazione. “Siamo ciò che siamo – dice Nisargadatta Maharaj - ma conosciamo solo ciò che non siamo.” 
Dobbiamo pertanto chiudere le “nove porte” e andare oltre la percezione, oltre i concetti, oltre le categorie di tempo e di spazio, di nome e di forma. 
L’universo, quello che noi chiamiamo realtà, è solo un’esperienza personale e quando una persona muore, muore solo il corpo e la coscienza di sé, ma non muore il Sé. 
“Se vuoi l’infinito, abbandona il finito – dice ancora Maharaj – il finito è il prezzo dell’infinito.” Dobbiamo cioè abbandonare tutto per ottenere tutto. ”Fintanto che crediamo di aver bisogno delle cose per essere felici, crediamo anche di essere infelici quando ci mancano. In realtà saremo liberi solo quando capiremo che noi stessi siamo gli autori della nostra schiavitù e smetteremo di fabbricare le cose che ci legano.” 
Il Brahman è la fine di ogni desiderio, di ogni pensiero e di ogni sapere. Il Brahman è sat-cit-ananda, essere-coscienza-beatitudine assolute. 
Secondo il Vedanta questa realizzazione non puo' essere raggiunta in una sola vita, ma sono necessarie molte vite, migliaia, milioni di vite. L’Atman deve liberarsi infatti del Karman, delle conseguenze cioè delle azioni compiute nelle vite precedenti, fino ad esaurire ogni residuo karmico, reincarnarsi per l’ultima volta in un essere umano e raggiungere moksha o mukti, cioe' la liberazione e l’interruzione del samsara il ciclo delle rinascite, per unire definitivamente l’Atman che è dentro di noi con il Brahman. 
E Dio, isvara? Dio o gli dèi così come vengono percepiti dagli uomini, come ogni cosa che esiste nel tempo, nello spazio o nella mente, sono destinati a morire. La religione così come intesa generalmente rappresenta solo una tappa verso la conoscenza del Sé. L’uomo non spiritualmente progredito ha bisogno di un qualcosa di concreto, un Dio, un’immagine cui rivolgersi, cui essere devoto. 
Per chi crede nell’esistenza di Dio, questi è il Brahman, per chi non ci crede, il Brahman è un concetto metafisico impersonale, essenza e origine di ogni cosa e Dio non e' altro che una delle tante cose transeunti che vivono solo nella nostra percezione. 
In realta' alcune correnti del Vedanta – basandosi anche su alcuni passi della Bagavad Gita – sostengono che le vie per la liberazioni possono passare anche attraverso la devozione (bakti) o l’azione distaccata (karmayoga), ma i vedantisti più rigorosi ritengono che la devozione e l’azione siano livelli ancora primitivi nel percorso verso moksha. 
Alcuni, alla domanda, sui riti e le preghiere, le cerimonie e la religione, rispondono provocatoriamente: “La religione? E cosa c’entra la religione con Dio?” 




Per approfondire:

Chandogya Upanishad
Mundaka Upanishad
Svetasvatara Upanishad
Sankaracharya: Atmabodha, la conoscenza del Sé
C. Isherwood, L’albero dei desideri
Sri Nisargadatta Maharaj, Io sono quello
Sri Nisargadatta Maharaj, L’esperienza del nulla

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